La Campania

La cultura italiana della tavola

La cultura italiana della tavola

Un calendario di iniziative speciali per scoprire e riscoprire la cultura enogastronomica Italiana: ogni mese un “viaggio” stimolante per approfondire eccellenze territoriali e ricette tradizionali, come sempre all’insegna della rivisitazione creativa e della piacevolezza.

Il calendario: 

Giugno 2022 / Il Lazio

Luglio 2022 / La Campania

Agosto 2022 / La Sicilia e la Sardegna

Ingredienti e prodotti regionali protagonisti del mese:

per iniziare...

A seguire...

pER SAPERNE DI PIù…

Mozzarella Bufala campana

(da Wikipedia)

La mozzarella di bufala campana è un latticino a pasta filata prodotto tradizionalmente nelle province di Caserta e Salerno. La produzione si svolge altresì in selezionate località della città metropolitana di Napoli, nonché nel Lazio meridionale, nell’alta Puglia e nel comune molisano di Venafro.

E’ sovente definita “regina della cucina mediterranea”, ma anche “oro bianco” in ossequio alle pregiate qualità alimentari e gustative del prodotto caseario. Ha ottenuto la denominazione di origine controllata (DOC) nel 1993 e la denominazione di origine protetta (DOP) nel 1996. Il termine “mozzarella” deriva dal nome dell’operazione di mozzatura compiuta per separare l’impasto in singoli pezzi.

Questo latticino è prodotto solo con latte fresco e intero di bufala di razza mediterranea italiana. Gli animali devono essere iscritti all’anagrafe e sono allevati secondo gli usi locali a stabulazione semilibera, al pascolo aperto. Il latte con un contenuto di grassi minimo, stabilito dal disciplinare, deve essere consegnato al caseificio per la successiva trasformazione entro 60 ore dalla mungitura. La coagulazione è ottenuta aggiungendo al latte riscaldato a 33-36 °C fermenti naturali derivanti da precedenti lavorazioni di latte di bufala (il cosiddetto “siero innesto”). La cagliata, rotta fino a ottenere grani della dimensione di una noce, è fatta maturare in siero per circa 5 ore e successivamente ridotta in strisce filate in acqua a 95 °C, “mozzate” per ottenere la pezzatura desiderata. I pezzi ricavati sono tenuti in acqua potabile fredda e salati in salamoia per tempi variabili: una volta confezionati, vengono conservati nel liquido di governo.

Pasta di Gragnano

(da Wikipedia e Consorzio Gragnagno Città della Pasta)

La “Pasta di Gragnano IGP” è ottenuta dall’impasto della semola di grano duro della migliore qualità con acqua della falda acquifera locale, con successiva trafilatura al bronzo. La qualità dell’acqua, il particolarissimo microclima tra Golfo di Napoli e Monti Lattari, l’arte storica della pasta, la trafilatura al bronzo e la più sicura tecnologia oggi disponibile conferiscono alla “Pasta di Gragnano IGP” specifiche caratteristiche, riportate dal disciplinare di produzione.

Da ottobre 2013, a livello europeo, la denominazione “Pasta di Gragnano” è stata riconosciuta indicazione geografica protetta (IGP).

La produzione della pasta risale alla fine del XVI secolo quando comparirono i primi pastifici a conduzione familiare. Fino al XVII secolo era un alimento poco diffuso ma, a seguito della carestia che colpì il Regno di Napoli, divenne un alimento fondamentale grazie alle sue qualità nutritive e per l’invenzione che consentiva di produrre pasta, detta “oro bianco”, a basso costo pressando l’impasto attraverso le trafile. I terreni ideali per consentire la produzione furono Gragnano e Napoli, grazie ai loro microclima composti da vento, sole e giusta umidità. Proprio gli abitanti del Regno di Napoli furono i primi a dare delle svolte importanti alla produzione di pasta, e nel 1861 all’apice della produzione della pasta c’erano gli stabilimenti di Gragnano. I gragnanesi, in quel periodo, furono i maggiori produttori di pasta nel mondo in particolare nella vendita dei maccheroni.

Il 12 luglio del 1845 Ferdinando II delle Due Sicilie, re del Regno di Napoli, durante un pranzo, concesse ai fabbricanti gragnanesi l’alto privilegio di fornire la corte di tutte le paste lunghe, e così che per tutti, da allora, Gragnano diventò la “città dei maccheroni”.

Sotto il profilo delle caratteristiche fisiche e organolettiche la “Pasta di Gragnano I.G.P.” ha un aspetto esterno omogeneo, senza macchie, tagli, fessure o bolle d’aria.

La sezione di frattura della pasta è vitrea e il suo colore è giallo paglierino.

Alla cottura ha una consistenza soda ed elastica al contempo con una buona tenuta di cottura tale da garantirle uniformità e assenza di collosità.

Pacchetella del Piennolo del Vesuvio D.O.P.

(da Yourdreamitaly e Wikipedia)

Il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio, DOP dal 2009, è una antica coltura Vesuviana che deve il suo nome alla consuetudine dei contadini di intrecciare, intorno ad uno spago legato a cerchio, i grappoli di pomodorini, sino a formare un grande grappolo (il piennolo) poi appeso in un ambiente asciutto e ventilato. Ricco di acidi organici, dal sapore fresco e acre ha una buccia coriacea che fa sì che le sostanze nutritive siano preservate nel tempo.

Il pomodorino conservato al piènnolo o in conserva è una delle produzioni più antiche e tipiche dell’area vesuviana. Le prime testimonianze documentate e tecnicamente dettagliate risalgono alle pubblicazioni della Regia Scuola Superiore di Agricoltura di Portici negli anni 1885, 1902 e 1916.

Nei secoli precedenti la coltivazione di questo tipo di pomodoro si era affermata sia per le ridotte esigenze colturali sia per l’idoneità alla lunga conservazione nei mesi invernali in virtù della consistenza della buccia.

L’antica diffusione di questa tipologia di pomodoro conservato era infatti legata alla necessità di disporre nei mesi invernali di pomodoro allo stato fresco per poter adeguatamente guarnire le preparazioni domestiche, da sempre molto diffuse nel napoletano fra cui pizze e primi piatti che richiedevano intensità di gusto e di fragranze.

Il prodotto è ottenuto dalla specie Solanum lycopersicum varietà Mill, derivanti dalle cultivar tradizionali note come Fiaschella, Lampadina, Patanara, Principe Borghese e Re Umberto un tempo coltivate nell’area. Le bacche, del peso non superiore a 30 grammi, hanno una forma ovale allungata, lievemente a pera o a cuore, di cui è ben visibile la parte apicale (il pizzo).

I pomodorini del Vesuvio si possono conservare a lungo grazie alla buccia spessa. Sono tradizionalmente raccolti a grappolo e appesi sui balconi, prendendo, in questo modo, il nome di piénnolo (pendolo) o spongillo (per il pizzo che presentano alla loro estremità).

Coniglio all’Ischitana

(da Wikipedia e Ischiaprenota)

Il coniglio all’Ischitana è una ricetta della cucina napoletana tipica dell’isola d’Ischia, che consiste nel cucinare la carne di coniglio in un tegame di terracotta (detto o’tiano) con aglio, olio di oliva, sale, peperoncino, vino bianco Doc Ischia Biancolella, pomodorini e spezie isolane. Il sugo che si ricava è utilizzato per condire i bucatini che vengono serviti mantecati con abbondante parmigiano grattugiato.

Ad Ischia i conigli sono storicamente allevati in buche, dove sono liberi di scavare cunicoli e muoversi nella terra; questo conferisce alle carni maggior sapore e consistenza.

La ricetta del coniglio all’ischitana è sorta intorno al 470 a.C, in occasione di un’invasione dell’isola, stracolma al tempo di conigli selvatici, da parte dei siracusani. La storia vuole che i sovrani siciliani e il loro entourage, si aggregassero spesso per la pratica della caccia proprio di questi animali, i conigli, che poi venivano cotti da sapienti domestici di corte. Una pietanza per cui che nasce in un ambiente aristocratico, ma che con il succedersi dei secoli è entrato a far parte di un menù turistico che la rende alla portata di tutti. L’autentica ricetta, nel corso degli anni, ha subito numerosi cambiamenti e ciò, è deducibile dal pomodoro (importato dall’America solo dopo la sua scoperta) tutt’oggi presente tra gli ingredienti.

Fiocchi di Neve Poppella

(da Filodiritto)

Nato nel rione Sanità, ha conquistato tutta Napoli, l’Italia e addirittura l’Europa. Già dalle 7 di mattina le gente si mette in coda per poter assaggiare il bocconcino paradisiaco. Un dolce che è divenuto talmente tanto famoso da essersi ormai conquistato il podio napoletano affiancando i tradizionalissimi babà e sfogliatella.

Un giorno, nel non troppo lontano 2015, Ciro Poppella inventa il “fiocco di neve” creato grazie alla fortunata unione di una soffice pasta lievitata e una crema dal sapore inimitabile. Un’abbondante spolverata di zucchero a velo rende, poi, l’esperienza di gusto semplicemente unica. Il successo riscosso dal “fiocco” ha fatto sì che venissero inventate anche due varianti per i più golosi, una al pistacchio e una al cioccolato.

La ricetta è indubbiamente segreta, quello che sappiamo è che l’impasto della brioche è un tradizionale impasto a base di farina, burro, uova, zucchero, sale e lievito. Il tutto riposa per un’ora e dopodiché vengono formate le sfere che riposeranno per altre 14 ore. Passato questo tempo il fiocco viene infornato. Simile ad un paninetto, è però “senza corpo” vista la lunga lievitazione.

Una volta pronto, viene farcito con una speciale crema di latte e ricotta di pecora. Riempito il fiocco, viene spolverato sopra lo zucchero a velo e non si fa in tempo ad assaggiare che… è già finito!

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